Safet Zec
Safet Zec non ha bisogno di presentazioni, è artista di grande spessore, pittore e incisore di altissima qualità. Originario della Bosnia, classe 1943, figlio di un artigiano, legatissimo alla sua terra, dovette abbandonarla, fuggendo in Italia, nel 1992, a causa della guerra nella ex Jugoslavia. A Udine ricominciò da capo, lavorando accanitamente e riuscendo ad ottenere col tempo importanti riconoscimenti. Dopo la fine della guerra riprese i contatti con la sua terra, a Sarajevo, dove riaprì lo studio, diventato centro culturale molto attivo in cui tuttora espone anche le sue opere.
Egli ci mostra le cose nella loro cruda verità, non cerca la poesia, almeno non come la si intende comunemente, ma focalizza la sua attenzione, e la nostra, su un momento, un aspetto particolare, un dettaglio che rivela la vita che scorre, semplice e muta nelle cose; a volte vibrante e passionale, nelle persone; densa di non detti, di accenni, di richiami a riflettere su punti di vista e oggetti apparentemente banali, un raggio di sole su una facciata, un davanzale di finestra, un interno in penombra, una sedia, ecc. Una vita dura, graffiata, ferita ma non vinta, ancorata al quotidiano su cui riversa tutta la sua forza.
La dignità dei piccoli, anonimi oggetti, la storia che intuisci in un cesto vecchio e consunto che sembra dirci come il valore non sta nelle cose ma nell'importanza che assumono per chi le possiede, per il ruolo che rivestono e in quei brandelli di vita vissuta della quale rimangono impregnati e che Safet Zec sa trasmettere così bene. Non a caso rappresenta spesso il suo ambiente di lavoro, il suo tavolino con colori e pennelli, in un dialogo continuo con quei mezzi coi quali, poi, si esprime.
C'è sempre un'atmosfera pacata, un gioco di ombre leggere, o di forti contrasti, una calma che invita l'occhio a soffermarsi sui particolari per scoprire qualcosa al di là del loro semplice aspetto.
Si parla di realismo magico, espressione abusata; di visione metafisica - e anche questa, ormai logora, si affibbia a tutto. Ma forse è solo la semplicità, sia pure apparente, quella semplicità che solo i grandi sanno esprimere, come lui, che racconta l'essenza, l'interiorità dell'uomo attraverso i suoi oggetti d'uso comune, i suoi angoli di vita, i suoi momenti più intensi, la sua quotidianità. Ed è lì che si cela tutta la sua ricchezza umana e culturale e che affiora attraverso i dettagli, il colore a volte crudo, sovrapposto, aspro, sferzato da segni netti, scuri o chiari, indelebili come cicatrici, perentori nella loro corsa sulla superficie, a tentare di definire le figure e gli oggetti.
Quel senso che, per un momento, deve essergli sembrato perduto per sempre, calpestato dalla disumana follia collettiva della guerra da cui fu costretto a fuggire, segnandolo per sempre. Da allora il dolore è stato uno dei temi fondamentali della sua arte. Si manifesta nelle mani, ripetute in maniera ossessiva, mani dalle dita nodose, sfruttate dal lavoro, a volte intrecciate in una tensione disperata, l'immancabile fede al dito, testimonianza di un incrollabile legame affettivo. Oppure a coprire il volto, accentuando e amplificando un'indicibile, profonda sofferenza che per pudore vorrebbero, invece, nascondere...
Safet Zec mette in scena il dolore delle sue figure in maniera reale, diretta, senza enfasi ma quasi ostentato, sembrerebbe imposto alla nostra attenzione e partecipazione. Senza artifici e senza intermediazioni si offre in tutta la sua forza dirompente di un momento fissato nel suo divenire, altre volte è un silenzio immobile che vibra ancora di un dramma infinito che viene da lontano e che intride anche gli oggetti più umili e semplici.
Ed è sempre grazie a questa sua maestria, dovuta a una lunga e tenace pratica artigianale, che Zec sa tirare fuori forti emozioni da uno sguardo perso in chissà quali pensieri, da un volto oppresso da uno straziante dolore, attimi di un'intensità emotiva impressionante, coinvolgente.