venerdì 6 dicembre 2013

Le donne di Klimt

  Ti guardano con occhi gelidi, languidi, maliziosi, ammiccanti, penetranti, ribelli e si potrebbero aggiungere molti altri aggettivi ma su tutti spicca quell'aria di sicurezza e a volte di sfida nei riguardi dello spettatore verso cui vogliono affermare una nuova condizione, un nuovo ruolo nella società. Sto parlando delle donne nei quadri di Gustav Klimt, soprattutto quelle dalla Secessione in avanti poiché prima la sua pittura, essendo di impronta tradizionale tendente ad imitare i modelli classici, esprimeva un tipo di donna più consono ai soggetti storici e alle allegorie ambientate in paesaggi dalle atmosfere idilliache e serene molto in voga nel torpore della Vienna  di fine ottocento, quasi per niente o pochissimo sfiorata dalle rivoluzioni artistiche di mezza Europa. 
  Ma infine una molla scattò anche in quella che era diventata la Vienna di Freud, di von Hoffmanstal, di Schnitzler. Nel 1897 un gruppo di artisti insoddisfatti si separarono dalla Künstlerhaus, l'associazione degli artisti ufficiale e diedero vita a quella che diventò famosa come Secessione. Il gruppo era capeggiato appunto da Gustav Klimt, allora pittore già famoso con alle spalle una carriera di prestigio, seppure nell'ambito della tranquilla e angusta cultura viennese. 
  Il Movimento, che abbracciava tutto l'orizzonte delle espressioni artistiche e delle arti applicate, si proponeva, ambiziosamente, di svecchiare e ammodernare il gusto estetico in tutti gli aspetti della vita anche quotidiana, dall'architettura alla pittura, alla musica, all'arredamento, perfino all'abbigliamento. In questo nuovo clima nacque la nuova arte di Klimt e compagni che si inserì in quel grande filone che si stava sviluppando in tutta Europa con nomi diversi come Art Nouveau, Liberty, Stile Floreale ecc. caratterizzata da un decorativismo esasperato, bidimensionale, dalle forme stilizzate al massimo e anche un po' superficiale, bisogna dirlo. Ma Klimt riuscì a fare di più: espresse al meglio il clima del suo tempo elaborando una personalissima sintesi tra la cultura simbolista fino ad allora dominante e l'Art Nouveau. Il risultato fu una pittura dove gli elementi decorativi astratti, oro compreso, si intrecciavano con elementi naturalistici in un insieme dal fascino esotico traboccante di voluttuose forme che non chiedevano altro che di piacere e dalle quali emergevano corpi umani che esprimevano tutta la decadenza di quella società che ormai aveva esaurito tutte le sue possibilità e si avviava verso la sua fine per rinascere poi nel nuovo secolo e al prezzo di grandi catastrofi. 
  In questo contesto nascono le donne di Klimt (finalmente ci siamo arrivati) totalmente diverse dalle precedenti nella forma e nella tecnica pittorica che ora è fatta di pennellate franche e vibranti di colori chiari e molli su preparazioni spesso azzurro-verdastre, labbra rosso squillante, capelli infuocati o neri; il tutto ornato di oro e gemme per farne delle figure preziose consapevoli della loro bellezza e di un grande potere di seduzione che sono ben decise a mettere in pratica. Sia che si tratti di figure fantastiche o di ritratti tutte hanno in comune una grande raffinatezza ottenuta attraverso linee morbide e sinuose e un colorismo acceso ma calibrato, intarsiato d'oro tutto rigorosamente bidimensionale. 


G. Klimt - Pallade Atena 1898  (Settemuse.it)

  
  Colpisce per la sua imperiosa presenza la Pallade Atena, per la prima volta una dea non come statua  ma dipinta come donna in carne e ossa, con tanto di armatura ed elmo. Espressione fiera, sguardo gelido, ciò che occorre per affrontare i tempi moderni, l'insieme però è inquietante, minaccioso, beffardo. 

G. Klimt - Nuda Veritas  1899 (Settemuse.it)

 Anche la Nuda Veritas pur essendo un nudo vero e niente affatto ideale, con uno specchio in mano, ha uno sguardo frontale fisso rivolto allo spettatore come a volerlo mettere di fronte a se stesso e dirgli: "Ciò che vedi è quello che è?" A rafforzare il concetto la citazione da Schiller sullo sfondo oro 
 "Non puoi piacere a tutti con la tua azione e la tua arte. Rendi giustizia a pochi. Piacere a molti è male". 
In breve, "Sii te stesso"

 
G. Klimt - Danae 1907 (settemuse.it)

  Più intima e raccolta è la Danae, originale nella posa rannicchiata mentre viene sedotta da Giove sotto forma di pioggia d'oro. L'espressione del viso è serena nel sonno ma la mano contratta rivela che in realtà, forse istintivamente, anche lei partecipa attivamente a quella strana forma di comunione di amorosi sensi. 

 
G. Klimt - Acque agitate 1904 (settemuse.it)


G. Klimt - Pesci d'oro 1902

  E che dire poi di quelle fanciulle ammalianti dai corpi provocanti che nuotano in un mare irreale, quasi magico, non sembrano moderne sirene in attesa di uomini da portare alla perdizione?  E questo ci porta dritti dritti alle figure forse più famose e più riprodotte di Klimt, insieme all'onnipresente "Bacio", le Giuditte, spesso denominate erroneamente Salomé, le Femmes fatales per eccellenza. Klimt ne dipinse due a distanza di otto anni, con notevoli differenze stilistiche. 

 
G. Klimt - Giuditta I 1901

  La Giuditta I ti guarda con occhi socchiusi e la bocca semiaperta in un mezzo sorriso che sprizza desiderio e voluttà, è ancora semi nuda e ingioiellata, l'oro la sommerge, il corpo freme di un godimento intimo che sembra volerti attirare a sé. Ma ti accorgi che non è così quando abbassi lo sguardo e nelle sue mani vedi spuntare dal bordo della cornice la testa mozzata di Oloferne che lei ha appena ucciso e che ora esibisce con macabro orgoglio. Così, semplicemente, senza alcun dramma, ma tutto ha un sottile sapore di morte. 

 
G. Klimt - Giuditta II 1909

  Molto diversa la Giuditta II la quale ha perso ormai le mollezze dorate e languide per assumere un aspetto più spigoloso attraverso una pittura più espressionistica fortemente contrastata. Mantiene, però, l'eleganza nella figura di profilo, tagliente, tutta protesa in avanti con fare da rapace che fugge con la sua preda (la testa di Oloferne) fra gli artigli, lo sguardo perso nel vuoto, tutto il corpo ancora carico di tensione e mezzo nudo a ricordarci con quali mezzi di seduzione è riuscita ad avere la meglio sul Generale nemico. La vittoria dell'intelligenza femminile sulla forza bruta maschile, all'epoca una sorta di tentativo di emancipazione della donna, un tema molto sentito allora. 
  Questo, per grandi linee, il tipo di donne che si affacciavano alle soglie del nuovo secolo nella speranza di un'affermazione nella nuova società che andava delineandosi, la quale lottava, a volte in maniera violenta, per scrollarsi di dosso un passato che sembrava ingombrante, superare un presente incerto e problematico per inseguire un futuro pieno di incognite ma che nelle speranze è sempre luminoso. A tutto questo Klimt seppe dare una forma, una nuova bellezza, un nuovo significato e se a distanza di un secolo la sua arte "decadente" è ancora amata e ammirata un motivo ci sarà...

mercoledì 20 novembre 2013

Il cittadino e l'arte


  Approfitto dello spunto che mi dà un articolo apparso sul "Corriere"  in questi giorni per una breve riflessione sul rapporto fra arte e  cittadino. Lo so, occorrerebbe scrivere un libro intero ma non è il  mio compito né mia intenzione. 
  Si possono dare mille ruoli all'arte,  ognuno di noi ci può vedere una funzione diversa a seconda di ciò che  cerchiamo, di ciò che siamo, di ciò di cui abbiamo bisogno in termini  culturali, psicologici, umani. Dalla semplice curiosità (anche questa  è una grande dote, a saperla sfruttare) alla pura gratificazione  sensoriale; dal desiderio di arricchimento spirituale alla voglia di  vedere espresso di noi ciò che noi non siamo in grado di esprimere a  parole o altro; e così via. L'arte riguarda l'estetica e tutto ciò ad essa riconducibile nella nostra vita e niente altro. Caricarla di  funzioni e problemi estranei al campo estetico come si fa con l'arte contemporanea è una forzatura e ormai se ne vedono tutti gli effetti e tutti i limiti.
  Ho il sospetto che non  si tratti di necessità naturale ma di incapacità di esprimere e  affrontare i problemi della società nelle forme e nei modi più  appropriati. Gli artisti si sentono, o dovrei dire ci sentiamo,  missionari di nuovi modelli culturali, profeti di improbabili verità,  ma spesso sono semplicemente dei produttori seriali di provocazioni  fini a se stesse ma evidentemente tendenti ad attirare l'attenzione su  di sé. Critici, teorici, intellettuali di vario colore e pezzatura,  operatori del settore più o meno interessati e qualche volta un po'  spregiudicati, fanno il resto. 

  L'uomo qualunque di fronte a quest'arte si sente escluso dalla comprensione dei suoi processi creativi, ne accetta passivamente l'esito finale nell'opera d'arte come è giusto che sia,  ma non ne capisce i percorsi che hanno portato fin lì, né la  validità del pensiero, né la ragione e la scelta della realizzazione.  Nei due esempi qui di seguito ci si rende conto che la prima opera è  di facile comprensione anche per i più incolti, tuttavia i più esperti  sanno coglierne altri aspetti più profondi. 



Raffaello Sanzio  (Web Gallery of Art)
J. Kounellis  (La Stampa.it)

  
La seconda è praticamente  incomprensibile a chiunque a prima vista se non è preceduta e seguita  da lunghe ed erudite spiegazioni di natura prevalentemente  concettuale. E se non dimostri di aver capito rischi di essere  guardato male, ti giudicano un poveraccio. Non è certo colpa del pur validissimo Kounellis, importante esponente della cosiddetta arte povera.
  Certamente il tempo non  passa invano e ogni epoca ha la sua cultura estetica fondata su  presupposti in continua evoluzione o creati in base a nuove esigenze e non sempre il cittadino comune è aggiornato in fatto di arte. E poi c'è da chiedersi: ma i principi dell'arte sono sempre validi? E chi  decide quali hanno più valore di altri? Quelli del nostro tempo sono i più giusti?     Dalle diverse risposte a queste domande dipendono le sorti  dell'arte di tutte epoche. La storia insegna, infatti, che la  qualità dell'arte ha avuto alti e bassi nel tempo e questo  indipendentemente dalle vicende strettamente storiche. A brutti  periodi corrisponde a volte un'arte di alto livello ma è vero anche il contrario. 
  Chi visita una mostra (oggi va molto il termine fruitore)  desidera vivere un'esperienza che appaghi i suoi bisogni, le sue  aspettative, le sue curiosità, la sua voglia di novità  compatibilmente con la sua preparazione culturale. Il rapporto con l'arte si fa diretto, la si interroga, si cercano risposte, insomma si tenta di comunicare per conoscere meglio se stessi attraverso gli altri, ma in  modo spontaneo, senza forzature. Con l'arte contemporanea, o con ciò  che così si definisce, però, le cose si complicano, ci si avventura in  un mare di intellettualismo spinto ai limiti dell'astrusità, dove il  concettuale domina incontrastato. 
  In ogni caso il suddetto cittadino  comune  non si pone questi problemi ma bada solo all'esito finale cioè  all'opera e in essa cerca cio' che nei casi migliori non vede e in quelli peggiori non
c'è.
                    

martedì 5 novembre 2013

Balthus – La lezione di chitarra (1934)


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Balthus – La lezione di chitarra (fonte: www.settemuse.it)



  Una strana scena: una donna seduta tiene sulle ginocchia in maniera scomposta una bambina seminuda e la maltratta violentemente, per terra una chitarra e poco distante un pianoforte. Sullo sfondo una parete tappezzata a righe verticali rosse e verdi. Nient'altro. L'immagine è di grande impatto visivo. Ma cosa avrà mai fatto quella bambina per meritare un simile castigo? Cerca di dimenarsi come può ma viene trattenuta per i capelli, sta per cadere e prova ad aggrapparsi alla scollatura della camicetta della sua aguzzina, la tira fino a scoprirle il seno che fuoriesce baldanzoso; ma quella non molla, afferra per una coscia la malcapitata decisa ad andare avanti fino a... Già, fino a dove, fino a cosa? E le cose stanno realmente così?  
  A ben guardare molti dettagli sembrerebbero andare in una altra direzione o in un'altra ancora. In realtà l'ambiguità, credo proprio voluta, regna sovrana. E non tragga in inganno il titolo del quadro: "La lezione di chitarra" (1934), perché qui di musicale non c'è praticamente nulla, nemmeno gli strumenti presenti, la chitarra è chiaramente un giocattolo viste le dimensioni e il pianoforte con quei tasti improbabili non potrebbe mai suonare nulla di decente. Quindi è ovvio che si tratta di una messinscena apparecchiata ironicamente per distogliere l'attenzione da ciò che avviene realmente, ma con l'intenzione scoperta e perfino un po' divertita di metterlo ancora più in risalto per contrasto.
  Possiamo dire che nulla è ciò che sembra tranne l'immaginazione che lentamente si insinua e apre a una probabile interpretazione. Gli occhi socchiusi, le labbra serrate in una smorfia di sottile piacere; e poi quel seno è veramente uscito per caso dal décolleté della presunta insegnante?
  Quella mano che indugia con apparente noncuranza troppo vicina al pube glabro e, anche qui, non casualmente nudo della bambina, per il resto vestita di tutto punto.
  Quell' espressione trasognata e per niente terrorizzata, magari solo un po' stupita di partecipare a quello che sembra più un gioco che comincia a farsi pesante, un gioco proibito.
  La povera ragazzina non poteva immaginare che sarebbe stata lei lo strumento della lezione. Sotto le mani sapienti della donna sente vibrare un mondo nuovo di sensualità nascente. E' smarrita. E' come in un rito di iniziazione, bisogna sottostare al suo svolgimento pena il castigo. Nella stanza aleggia un senso di sottile perversione accentuata da quella posa così teatrale e artificiosa... Ormai la fantasia ha preso il volo ed è facile scivolare in un registro voyeuristico-morboso che il quadro, benché malizioso, non merita o lanciarsi in spericolate argomentazioni da psicanalisti della domenica. L'autore, per sua stessa ammissione, voleva solo suscitare del clamore, attirare l'attenzione e lo ha fatto con quel suo modo un po' serio e un po' beffardo, condensando in una scena così plateale un insieme di sentimenti contrastanti, pensieri torbidi, intime passioni inquietanti. C'è riuscito talmente bene che il quadro, per eccesso di perbenismo un po’ ipocrita è stato esposto pochissime volte e in circostanze particolari. Quasi più criticato che visto. E anche la mostra in corso al Metropolitan Museum of Art di New York è un’occasione perduta per poterlo ammirare. Peccato.
  Il nome Balthazar Klossowsky de Rola probabilmente non dice nulla a tanti, ma Balthus, dal nome con cui veniva chiamato da bambino, forse sì. Dico forse perché, non appartenendo ad alcun filone artistico e restando sempre appartato rispetto al corso dell'arte dell'ultimo secolo, non fa parte dei sentieri d'arte più battuti e più popolari. Eppure chi lo conosce impara presto ad amarlo perché riesce a tenere lo spettatore incollato ai suoi quadri alla ricerca di quel nonsoché che sfugge sempre ma si sa che c'è. Balthus (1908-2001), parigino ma di famiglia aristocratica di origine polacca, artisticamente è un solitario, indifferente ai cambiamenti e alle avanguardie che si andavano via via sviluppando intorno a sé lungo tutta la sua vita, ma che tuttavia non ignorava. Il suo stile è adatto ad esplorare e quindi esprimere un'interiorità arcaica, misteriosa, sensuale, inquietante ma senza dimenticare quella vena ironica che egli sapeva trovare nel fondo delle cose e delle persone, proprio come nella "Lezione di chitarra".

domenica 20 ottobre 2013

Francisco de Zurbaràn: Natura morta con ceramiche

 In un libro di testo sull'arte, ai tempi della scuola, mi capitava spesso di imbattermi nella foto di una natura morta piuttosto scura, semplice, poco colorata (così può apparire agli occhi di un ragazzino), eppure aveva qualcosa di attraente, un sottile fascino nascosto che non sapevo spiegare. Non ne avevo ancora i mezzi. Non era nemmeno fra i miei generi preferiti, allora ai primi posti c'erano van Gogh, Modigliani, Gauguin, Monet, tutti scoppiettanti di colore e diretti nello stile. In questo, invece, nulla di tutto ciò: ombroso, lineare, il colore ridotto all'osso, stile levigato e naturale, per niente vistoso.

F. de Zurbaràn - Natura morta con ceramiche 1660

 Un semplice ripiano orizzontale, appena distinguibile dal fondo nero, su cui sono disposti in fila alcune brocche e anfore, nient'altro. Neanche il nome dell'autore mi diceva niente: Francisco de Zurbaràn. Beh, pensavo, se è stampato qui vuol dire che è importante. Non approfondii ulteriormente l'argomento ma quel libro si apriva quasi sempre alla stessa pagina come tutti i libri quando hanno qualche pagina più frequentata delle altre. O forse ero io che cercavo quel quadro. Ma mi piace pensare che fosse lui a farsi trovare da me... Così un po' alla volta imparai involontariamente a conoscerlo in tutti i suoi dettagli, le sue sfumature, fino a farlo mio, amarlo e imprimerlo nella memoria per sempre. Ora ho la consapevolezza di ciò che allora era solo intuizione, benché corretta nei suoi aspetti emozionali ma non ancora definita in quelli formali. 
 Pur essendo una natura morta dipinta con linguaggio secentesco, è evidente che il suo scopo non è rappresentare gli oggetti in maniera realistica, o almeno non solo quello. Si sente una volontà di andare oltre il dato fisico, se non fosse un'eresia sarei tentato di dire che si percepisce un'aria metafisica che per Zurbaràn, però, si traduce in una profonda spiritualità che egli sapeva trovare, o infondere, anche negli oggetti inanimati. Quelle anfore sembrano uscire timidamente alla luce, quasi contro voglia, non hanno smania di protagonismo pur essendo al centro della scena. Eppure non sono umili oggetti, si vede che sono di un certo rango, ma sembra che non vogliano far pesare il loro status, come dire "il benessere terreno e la bellezza esteriore non sono gli elementi principali della vita, c'è dell'altro", con questo essendo in piena sintonia con il clima profondamente religioso della Spagna dell'epoca che permeava di spiritualità ogni aspetto della vita quotidiana e di cui Zurbaràn fu il massimo interprete.
 Una grande lezione di sobrietà e di umiltà che non scade mai nel sentimentale o, peggio, nel patetico. Sono chiuse in se stesse, non c'è dialogo compositivo fra quelle brocche, a parte quella simmetria lineare che, invece di legarle, sembra che ne accentui maggiormente la solitudine, come soldatini in fila che nemmeno si conoscono tra di loro. Ognuna potrebbe fare quadro a sé. Le unisce solo quella luce caravaggesca che le strappa dalle tenebre senza tempo e senza luogo, come una visione, ma, a differenza del Genio italiano, la luce di Zurbaràn non rivela il dramma della cruda realtà quotidiana ma la vita  interiore delle cose e delle persone che aspirano a nobilitare, attraverso il sentimento religioso, un'esistenza materiale che altrimenti di nobile avrebbe ben poco.
 Le nature morte di Zurbaràn hanno fatto scuola per secoli arrivando fino al novecento e ogni artista che si rispetti gli è debitore di qualcosa.

F. de Zurbaràn - San Luca davanti a Gesù crocifisso 1660
 
 Francisco de Zurbaràn (1598-1664) fu definito il Caravaggio spagnolo e pur godendo di un'ottima reputazione non ebbe mai la stessa celebrità dell'amico Velàsquez, poi di Murillo. A ciò contribuì anche il suo isolamento volontario dovuto a un'indole chiusa, religiosissima.

 F. de Zurbaràn - S. Serapio 1628

F. de Zurbaran - Madonna col Bambino 1658

 Fortunatamente negli ultimi decenni la sua opera è stata fortemente rivalutata ed egli ora è riconosciuto come uno dei massimi esponenti del Barocco spagnolo ed europeo. Tuttavia la sua popolarità è ancora piuttosto bassa. Una buona occasione per conoscerlo meglio è una mostra a lui dedicata, per la prima volta in Italia, a Ferrara: "Zurbaràn", Palazzo dei Diamanti dal 14 settembre 2013 al 6 gennaio 2014.

lunedì 7 ottobre 2013

La zattera della Medusa

 I tragici fatti di Lampedusa di questi giorni mi hanno richiamato alla memoria un capolavoro dell'arte della prima metà del diciannovesimo secolo, un quadro di Théodore Géricault (1791-1824): "La zattera della Medusa" del 1819.

La zattera della Medusa

 Questo grande dipinto rievoca una tragedia avvenuta il 2 luglio 1816, quando la fregata Medusa con quattrocento persone a bordo naufragò nelle secche di Arguin. Fu allora costruita una zattera su cui trovarono posto, ammassati, centoquarantanove naufraghi, gli altri sui canotti di salvataggio.  La zattera inizialmente fu trainata da una scialuppa, ma dopo un po' gli ufficiali dei canotti tagliarono i cavi di traino e l'abbandonarono a sé stessa senza cibo né acqua e senza strumenti per la navigazione.
 I naufraghi rimasero in balia del mare per dodici giorni durante i quali bevvero urina miscelata a del vino trovato in alcune botti trovate alla deriva e, pare, si nutrirono della carne dei loro compagni che via via morivano.    Quando il brigantino Argus avvistò la zattera erano rimasti quindici uomini moribondi.
 Il fatto destò molto scalpore e scatenò molte polemiche come è facile immaginare. Anche Géricault rimase molto impressionato tanto che decise di realizzare un grande quadro. Aiutato dai testimoni di quel dramma e dal carpentiere che aveva lavorato alla Medusa si fece costruire un modello della zattera e, chiuso nel suo grande studio affittato appositamente, lavorò febbrilmente con i suoi modelli fino a luglio 1819 quando il quadro fu esposto al Salon.

La zattera della Medusa (part.)

Allora non fu molto apprezzato anche perché Géricault per enfatizzare il dramma aveva usato colori spenti, bruni, cupi, in contrasto con il gusto popolare del epoca. Ma poi il tempo rese giustizia a questo capolavoro che avrebbe potuto essere il primo di una lunga serie se il suo geniale autore non fosse morto poco tempo dopo a neanche trentatrè anni. Questa in sintesi la storia che, fatte le dovute differenze, ha tanti punti in comune con quello che è accaduto e che continua ad accadere al largo delle nostre coste. Anche da noi i migranti vengono abbandonati in mezzo al mare a bordo di quei gusci che, se non sono zattere poco ci manca, senza cibo né acqua, destinati a naufragare e spesso a morire in mare o sulle spiagge. Dopo quasi due secoli la storia si ripete e noi non abbiamo imparato niente. Chi è naufrago in mare come nella vita spesso viene escluso, emarginato, abbandonato a sé stesso finché non arriva qualcuno in soccorso a dimostrare che esiste ancora la solidarietà e la generosità. Ma a volte è troppo tardi.

domenica 22 settembre 2013

Solo luci al Guggenheim Museum

 Ho letto una recensione su "Repubblica" riguardante l'allestimento realizzato al Guggenheim Museum di New York da James Turrell famoso, dicono, per l'uso magistrale della luce. Più che un allestimento si direbbe una colossale scenografia, vuota, dove la scena è lo stesso museo.                    
 Protagonista, appunto, la luce. Ma dov'è l'arte? A quanto pare se lo sono chiesto in molti visto che qualcuno parla di operazione mediatica ben orchestrata per attirare il pubblico e, sembra, riuscitissima. Non essendoci nulla su cui dare un'eventuale opinione l'unica differenza tra l'essere presenti o no sta nelle sensazioni che ricevono i visitatori che si sottopongono a quei giochi di luci. Molto divertente sembra.
 Già da tutto questo si intuisce la megalomania dell'autore alla quale si accompagna altrettanta presunzione (dice che la sua luce è la rivelazione, ma sono convinto che non ci creda neanche lui, tutta scena appunto). Ha scoperto che il grande vuoto su di noi dà un senso di oppressione. Ma lasciando da parte gli atteggiamenti mistici che fanno tanto personaggio, la partecipazione dei visitatori sta nel provare quelle sensazioni sdraiandosi su dei materassini a contemplare il vuoto colorato sovrastante. Grande fantasmagoria di luci poi nulla. Più o meno simili giochi di luci nelle altre sale, ma l'arte dov'è?
 Tutto questo mi ricorda quando, da ragazzini, giocando sui prati o in terrazza, alla fine per riposarsi ci si metteva distesi a faccia in su a guardare il cielo pieno di nuvole vaganti o di stelle luccicanti in quell'immensità nera della notte. Dopo un po' si aveva quella stessa sensazione straniante, quel senso di oppressione che ti fa sentire piccolo piccolo, quello smarrimento vertiginoso che genera ansia e ti fa voltare la testa in cerca di quei riferimenti terrestri così rassicuranti. Insomma quel misto di realtà e illusione a cui vuole alludere Turrell.
 Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo fatto e facciamo questo genere di esperienza nella maniera più naturale possibile senza andare al Guggenheim Museum ma soprattutto senza che nessuno abbia mai pensato di chiamarla arte.
 A proposito, al Guggenheim l'arte c'è: è quella di Frank Lloyd Wright, il grande architetto che lo ha costruito.

giovedì 12 settembre 2013

Un nuovo quadro di Van Gogh


Si è parlato molto della scoperta o riscoperta del quadro di Van Gogh "Tramonto a Montmajour". Sulla sua autenticità non posso dire nulla avendolo visto solo in fotografia, mi fido degli esperti di turno benché alcuni aspetti non siano del tutto chiari: la tela, i materiali, i colori e la tecnica, tutto sembra combaciare con lo stile del grande Vincent. Anche la provenienza è indubbia. Tuttavia non si capisce come mai vent'anni fa era falso e adesso è autentico. Qui si potrebbe aprire una disputa su chi garantisce cosa e chi garantisce quelli che garantiscono. Fanno eccezione le certezze documentate (come in questo caso, pare) per il resto troppe certificazioni sono nelle mani di pochi "esperti". Comunque sia le nuove tecnologie giustificano relativamente questo nuovo cambio d'attribuzione e non bisogna dimenticare che l'uso non proprio razionale dei materiali da parte dell'artista ha provocato non poche alterazioni nei suoi quadri. Qualcuno ha avanzato l'ipotesi che le pareti del famoso quadro "la stanza da letto" erano in origine viola, ora azzurre, essendo scolorita la componente rossa. Il quadro appena riscoperto è dello stesso periodo, il 1888, quando Van Gogh si trovava ad Arles. In quell'anno sono nati parecchi capolavori come i "girasoli","Notte stellata sul Rodano", "La pianura della Crau" e tanti altri, ma il "nostro" non è dello stesso livello, non regge il confronto. Cromaticamente è debole, confuso, la composizione incerta e la tecnica non ancora risolta. Pare che Van Gogh stesso non ne fosse soddisfatto se è di questo quadro che parla in una sua lettera (non è certo). D'altra parte è anche vero che nella produzione di Van Gogh ci sono quadri anche più brutti. In ogni caso è certo che quest'opera non aggiunge nulla al profilo artistico di Van Gogh ma è altrettanto certo che aggiungerà molti soldi al conto in banca del proprietario, beato lui.


http://www.webalice.it/linomaj

lunedì 2 settembre 2013

Presentazione

  Qui vorrei parlare d'arte e altre cose, ma non di critica d'arte, di critici ce ne sono già abbastanza. Solo quattro chiacchiere senza pretese, in maniera informale per schiarirci le idee: tanto per dire, appunto.

 Ci hanno abituato a pensare che ormai tutto può diventare arte, basta volerlo, anzi basta enunciarlo e miracolosamente un sasso, un chiodo, uno straccio acquista il nobile status di oggetto d'arte.      
 Potenza dell'arte concettuale contemporanea in cui conta solo ciò che si pensa. Che piaccia o no questo è l'andazzo di quest'epoca sciagurata che vuole dimostrare la supremazia dell'intelletto su tutto e lo fa nella maniera più eccentrica, bizzarra e iperbolica.                                                                  
 È il tempo degli eccessi, se devi fare qualcosa falla estrema, esagera e sarai apprezzato. La stravaganza diventa originalità, la provocazione una pratica ordinaria, abituale finalizzata ad attirare l'attenzione su di sé e che non scandalizza più nessuno.
 È vero che l'arte non rappresenta la società ma le sue aspirazioni, i suoi ideali se ne ha e anche le sue paure e le sue insicurezze. Ognuno la esprime nel modo che ritiene più opportuno. Ma la cosa più irritante dei critici e ideologi di certa presunta arte contemporanea è che con le loro elucubrazioni tanto erudite e cervellotiche quanto oscure ed evanescenti ti insinuano il dubbio che loro hanno capito tutto e tu niente (anche perché il più delle volte niente c'è da capire), sicché per non fare brutta figura concordi quasi sempre con loro rischiando di ritrovarti spesso a comprendere e apprezzare l'infinito là dove nulla c'è.