domenica 20 ottobre 2013

Francisco de Zurbaràn: Natura morta con ceramiche

 In un libro di testo sull'arte, ai tempi della scuola, mi capitava spesso di imbattermi nella foto di una natura morta piuttosto scura, semplice, poco colorata (così può apparire agli occhi di un ragazzino), eppure aveva qualcosa di attraente, un sottile fascino nascosto che non sapevo spiegare. Non ne avevo ancora i mezzi. Non era nemmeno fra i miei generi preferiti, allora ai primi posti c'erano van Gogh, Modigliani, Gauguin, Monet, tutti scoppiettanti di colore e diretti nello stile. In questo, invece, nulla di tutto ciò: ombroso, lineare, il colore ridotto all'osso, stile levigato e naturale, per niente vistoso.

F. de Zurbaràn - Natura morta con ceramiche 1660

 Un semplice ripiano orizzontale, appena distinguibile dal fondo nero, su cui sono disposti in fila alcune brocche e anfore, nient'altro. Neanche il nome dell'autore mi diceva niente: Francisco de Zurbaràn. Beh, pensavo, se è stampato qui vuol dire che è importante. Non approfondii ulteriormente l'argomento ma quel libro si apriva quasi sempre alla stessa pagina come tutti i libri quando hanno qualche pagina più frequentata delle altre. O forse ero io che cercavo quel quadro. Ma mi piace pensare che fosse lui a farsi trovare da me... Così un po' alla volta imparai involontariamente a conoscerlo in tutti i suoi dettagli, le sue sfumature, fino a farlo mio, amarlo e imprimerlo nella memoria per sempre. Ora ho la consapevolezza di ciò che allora era solo intuizione, benché corretta nei suoi aspetti emozionali ma non ancora definita in quelli formali. 
 Pur essendo una natura morta dipinta con linguaggio secentesco, è evidente che il suo scopo non è rappresentare gli oggetti in maniera realistica, o almeno non solo quello. Si sente una volontà di andare oltre il dato fisico, se non fosse un'eresia sarei tentato di dire che si percepisce un'aria metafisica che per Zurbaràn, però, si traduce in una profonda spiritualità che egli sapeva trovare, o infondere, anche negli oggetti inanimati. Quelle anfore sembrano uscire timidamente alla luce, quasi contro voglia, non hanno smania di protagonismo pur essendo al centro della scena. Eppure non sono umili oggetti, si vede che sono di un certo rango, ma sembra che non vogliano far pesare il loro status, come dire "il benessere terreno e la bellezza esteriore non sono gli elementi principali della vita, c'è dell'altro", con questo essendo in piena sintonia con il clima profondamente religioso della Spagna dell'epoca che permeava di spiritualità ogni aspetto della vita quotidiana e di cui Zurbaràn fu il massimo interprete.
 Una grande lezione di sobrietà e di umiltà che non scade mai nel sentimentale o, peggio, nel patetico. Sono chiuse in se stesse, non c'è dialogo compositivo fra quelle brocche, a parte quella simmetria lineare che, invece di legarle, sembra che ne accentui maggiormente la solitudine, come soldatini in fila che nemmeno si conoscono tra di loro. Ognuna potrebbe fare quadro a sé. Le unisce solo quella luce caravaggesca che le strappa dalle tenebre senza tempo e senza luogo, come una visione, ma, a differenza del Genio italiano, la luce di Zurbaràn non rivela il dramma della cruda realtà quotidiana ma la vita  interiore delle cose e delle persone che aspirano a nobilitare, attraverso il sentimento religioso, un'esistenza materiale che altrimenti di nobile avrebbe ben poco.
 Le nature morte di Zurbaràn hanno fatto scuola per secoli arrivando fino al novecento e ogni artista che si rispetti gli è debitore di qualcosa.

F. de Zurbaràn - San Luca davanti a Gesù crocifisso 1660
 
 Francisco de Zurbaràn (1598-1664) fu definito il Caravaggio spagnolo e pur godendo di un'ottima reputazione non ebbe mai la stessa celebrità dell'amico Velàsquez, poi di Murillo. A ciò contribuì anche il suo isolamento volontario dovuto a un'indole chiusa, religiosissima.

 F. de Zurbaràn - S. Serapio 1628

F. de Zurbaran - Madonna col Bambino 1658

 Fortunatamente negli ultimi decenni la sua opera è stata fortemente rivalutata ed egli ora è riconosciuto come uno dei massimi esponenti del Barocco spagnolo ed europeo. Tuttavia la sua popolarità è ancora piuttosto bassa. Una buona occasione per conoscerlo meglio è una mostra a lui dedicata, per la prima volta in Italia, a Ferrara: "Zurbaràn", Palazzo dei Diamanti dal 14 settembre 2013 al 6 gennaio 2014.

lunedì 7 ottobre 2013

La zattera della Medusa

 I tragici fatti di Lampedusa di questi giorni mi hanno richiamato alla memoria un capolavoro dell'arte della prima metà del diciannovesimo secolo, un quadro di Théodore Géricault (1791-1824): "La zattera della Medusa" del 1819.

La zattera della Medusa

 Questo grande dipinto rievoca una tragedia avvenuta il 2 luglio 1816, quando la fregata Medusa con quattrocento persone a bordo naufragò nelle secche di Arguin. Fu allora costruita una zattera su cui trovarono posto, ammassati, centoquarantanove naufraghi, gli altri sui canotti di salvataggio.  La zattera inizialmente fu trainata da una scialuppa, ma dopo un po' gli ufficiali dei canotti tagliarono i cavi di traino e l'abbandonarono a sé stessa senza cibo né acqua e senza strumenti per la navigazione.
 I naufraghi rimasero in balia del mare per dodici giorni durante i quali bevvero urina miscelata a del vino trovato in alcune botti trovate alla deriva e, pare, si nutrirono della carne dei loro compagni che via via morivano.    Quando il brigantino Argus avvistò la zattera erano rimasti quindici uomini moribondi.
 Il fatto destò molto scalpore e scatenò molte polemiche come è facile immaginare. Anche Géricault rimase molto impressionato tanto che decise di realizzare un grande quadro. Aiutato dai testimoni di quel dramma e dal carpentiere che aveva lavorato alla Medusa si fece costruire un modello della zattera e, chiuso nel suo grande studio affittato appositamente, lavorò febbrilmente con i suoi modelli fino a luglio 1819 quando il quadro fu esposto al Salon.

La zattera della Medusa (part.)

Allora non fu molto apprezzato anche perché Géricault per enfatizzare il dramma aveva usato colori spenti, bruni, cupi, in contrasto con il gusto popolare del epoca. Ma poi il tempo rese giustizia a questo capolavoro che avrebbe potuto essere il primo di una lunga serie se il suo geniale autore non fosse morto poco tempo dopo a neanche trentatrè anni. Questa in sintesi la storia che, fatte le dovute differenze, ha tanti punti in comune con quello che è accaduto e che continua ad accadere al largo delle nostre coste. Anche da noi i migranti vengono abbandonati in mezzo al mare a bordo di quei gusci che, se non sono zattere poco ci manca, senza cibo né acqua, destinati a naufragare e spesso a morire in mare o sulle spiagge. Dopo quasi due secoli la storia si ripete e noi non abbiamo imparato niente. Chi è naufrago in mare come nella vita spesso viene escluso, emarginato, abbandonato a sé stesso finché non arriva qualcuno in soccorso a dimostrare che esiste ancora la solidarietà e la generosità. Ma a volte è troppo tardi.