mercoledì 20 novembre 2013

Il cittadino e l'arte


  Approfitto dello spunto che mi dà un articolo apparso sul "Corriere"  in questi giorni per una breve riflessione sul rapporto fra arte e  cittadino. Lo so, occorrerebbe scrivere un libro intero ma non è il  mio compito né mia intenzione. 
  Si possono dare mille ruoli all'arte,  ognuno di noi ci può vedere una funzione diversa a seconda di ciò che  cerchiamo, di ciò che siamo, di ciò di cui abbiamo bisogno in termini  culturali, psicologici, umani. Dalla semplice curiosità (anche questa  è una grande dote, a saperla sfruttare) alla pura gratificazione  sensoriale; dal desiderio di arricchimento spirituale alla voglia di  vedere espresso di noi ciò che noi non siamo in grado di esprimere a  parole o altro; e così via. L'arte riguarda l'estetica e tutto ciò ad essa riconducibile nella nostra vita e niente altro. Caricarla di  funzioni e problemi estranei al campo estetico come si fa con l'arte contemporanea è una forzatura e ormai se ne vedono tutti gli effetti e tutti i limiti.
  Ho il sospetto che non  si tratti di necessità naturale ma di incapacità di esprimere e  affrontare i problemi della società nelle forme e nei modi più  appropriati. Gli artisti si sentono, o dovrei dire ci sentiamo,  missionari di nuovi modelli culturali, profeti di improbabili verità,  ma spesso sono semplicemente dei produttori seriali di provocazioni  fini a se stesse ma evidentemente tendenti ad attirare l'attenzione su  di sé. Critici, teorici, intellettuali di vario colore e pezzatura,  operatori del settore più o meno interessati e qualche volta un po'  spregiudicati, fanno il resto. 

  L'uomo qualunque di fronte a quest'arte si sente escluso dalla comprensione dei suoi processi creativi, ne accetta passivamente l'esito finale nell'opera d'arte come è giusto che sia,  ma non ne capisce i percorsi che hanno portato fin lì, né la  validità del pensiero, né la ragione e la scelta della realizzazione.  Nei due esempi qui di seguito ci si rende conto che la prima opera è  di facile comprensione anche per i più incolti, tuttavia i più esperti  sanno coglierne altri aspetti più profondi. 



Raffaello Sanzio  (Web Gallery of Art)
J. Kounellis  (La Stampa.it)

  
La seconda è praticamente  incomprensibile a chiunque a prima vista se non è preceduta e seguita  da lunghe ed erudite spiegazioni di natura prevalentemente  concettuale. E se non dimostri di aver capito rischi di essere  guardato male, ti giudicano un poveraccio. Non è certo colpa del pur validissimo Kounellis, importante esponente della cosiddetta arte povera.
  Certamente il tempo non  passa invano e ogni epoca ha la sua cultura estetica fondata su  presupposti in continua evoluzione o creati in base a nuove esigenze e non sempre il cittadino comune è aggiornato in fatto di arte. E poi c'è da chiedersi: ma i principi dell'arte sono sempre validi? E chi  decide quali hanno più valore di altri? Quelli del nostro tempo sono i più giusti?     Dalle diverse risposte a queste domande dipendono le sorti  dell'arte di tutte epoche. La storia insegna, infatti, che la  qualità dell'arte ha avuto alti e bassi nel tempo e questo  indipendentemente dalle vicende strettamente storiche. A brutti  periodi corrisponde a volte un'arte di alto livello ma è vero anche il contrario. 
  Chi visita una mostra (oggi va molto il termine fruitore)  desidera vivere un'esperienza che appaghi i suoi bisogni, le sue  aspettative, le sue curiosità, la sua voglia di novità  compatibilmente con la sua preparazione culturale. Il rapporto con l'arte si fa diretto, la si interroga, si cercano risposte, insomma si tenta di comunicare per conoscere meglio se stessi attraverso gli altri, ma in  modo spontaneo, senza forzature. Con l'arte contemporanea, o con ciò  che così si definisce, però, le cose si complicano, ci si avventura in  un mare di intellettualismo spinto ai limiti dell'astrusità, dove il  concettuale domina incontrastato. 
  In ogni caso il suddetto cittadino  comune  non si pone questi problemi ma bada solo all'esito finale cioè  all'opera e in essa cerca cio' che nei casi migliori non vede e in quelli peggiori non
c'è.
                    

martedì 5 novembre 2013

Balthus – La lezione di chitarra (1934)


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Balthus – La lezione di chitarra (fonte: www.settemuse.it)



  Una strana scena: una donna seduta tiene sulle ginocchia in maniera scomposta una bambina seminuda e la maltratta violentemente, per terra una chitarra e poco distante un pianoforte. Sullo sfondo una parete tappezzata a righe verticali rosse e verdi. Nient'altro. L'immagine è di grande impatto visivo. Ma cosa avrà mai fatto quella bambina per meritare un simile castigo? Cerca di dimenarsi come può ma viene trattenuta per i capelli, sta per cadere e prova ad aggrapparsi alla scollatura della camicetta della sua aguzzina, la tira fino a scoprirle il seno che fuoriesce baldanzoso; ma quella non molla, afferra per una coscia la malcapitata decisa ad andare avanti fino a... Già, fino a dove, fino a cosa? E le cose stanno realmente così?  
  A ben guardare molti dettagli sembrerebbero andare in una altra direzione o in un'altra ancora. In realtà l'ambiguità, credo proprio voluta, regna sovrana. E non tragga in inganno il titolo del quadro: "La lezione di chitarra" (1934), perché qui di musicale non c'è praticamente nulla, nemmeno gli strumenti presenti, la chitarra è chiaramente un giocattolo viste le dimensioni e il pianoforte con quei tasti improbabili non potrebbe mai suonare nulla di decente. Quindi è ovvio che si tratta di una messinscena apparecchiata ironicamente per distogliere l'attenzione da ciò che avviene realmente, ma con l'intenzione scoperta e perfino un po' divertita di metterlo ancora più in risalto per contrasto.
  Possiamo dire che nulla è ciò che sembra tranne l'immaginazione che lentamente si insinua e apre a una probabile interpretazione. Gli occhi socchiusi, le labbra serrate in una smorfia di sottile piacere; e poi quel seno è veramente uscito per caso dal décolleté della presunta insegnante?
  Quella mano che indugia con apparente noncuranza troppo vicina al pube glabro e, anche qui, non casualmente nudo della bambina, per il resto vestita di tutto punto.
  Quell' espressione trasognata e per niente terrorizzata, magari solo un po' stupita di partecipare a quello che sembra più un gioco che comincia a farsi pesante, un gioco proibito.
  La povera ragazzina non poteva immaginare che sarebbe stata lei lo strumento della lezione. Sotto le mani sapienti della donna sente vibrare un mondo nuovo di sensualità nascente. E' smarrita. E' come in un rito di iniziazione, bisogna sottostare al suo svolgimento pena il castigo. Nella stanza aleggia un senso di sottile perversione accentuata da quella posa così teatrale e artificiosa... Ormai la fantasia ha preso il volo ed è facile scivolare in un registro voyeuristico-morboso che il quadro, benché malizioso, non merita o lanciarsi in spericolate argomentazioni da psicanalisti della domenica. L'autore, per sua stessa ammissione, voleva solo suscitare del clamore, attirare l'attenzione e lo ha fatto con quel suo modo un po' serio e un po' beffardo, condensando in una scena così plateale un insieme di sentimenti contrastanti, pensieri torbidi, intime passioni inquietanti. C'è riuscito talmente bene che il quadro, per eccesso di perbenismo un po’ ipocrita è stato esposto pochissime volte e in circostanze particolari. Quasi più criticato che visto. E anche la mostra in corso al Metropolitan Museum of Art di New York è un’occasione perduta per poterlo ammirare. Peccato.
  Il nome Balthazar Klossowsky de Rola probabilmente non dice nulla a tanti, ma Balthus, dal nome con cui veniva chiamato da bambino, forse sì. Dico forse perché, non appartenendo ad alcun filone artistico e restando sempre appartato rispetto al corso dell'arte dell'ultimo secolo, non fa parte dei sentieri d'arte più battuti e più popolari. Eppure chi lo conosce impara presto ad amarlo perché riesce a tenere lo spettatore incollato ai suoi quadri alla ricerca di quel nonsoché che sfugge sempre ma si sa che c'è. Balthus (1908-2001), parigino ma di famiglia aristocratica di origine polacca, artisticamente è un solitario, indifferente ai cambiamenti e alle avanguardie che si andavano via via sviluppando intorno a sé lungo tutta la sua vita, ma che tuttavia non ignorava. Il suo stile è adatto ad esplorare e quindi esprimere un'interiorità arcaica, misteriosa, sensuale, inquietante ma senza dimenticare quella vena ironica che egli sapeva trovare nel fondo delle cose e delle persone, proprio come nella "Lezione di chitarra".