Davanti allo specchio
Questo malessere di fronte all’inumanità dell’uomo stesso,
questa incalcolabile degradazione dell'immagine di ciò che siamo,
questa “nausea”, come la chiama un autore contemporaneo,
sono pure l’assurdo. Parimenti, l’estraneo che,
in certi momenti, viene incontro a noi nello specchio, il fratello
familiare e pur tuttavia inquietante che noi ritroviamo nelle
nostre stesse fotografie, è ancora l’assurdo.
A. Camus
questa incalcolabile degradazione dell'immagine di ciò che siamo,
questa “nausea”, come la chiama un autore contemporaneo,
sono pure l’assurdo. Parimenti, l’estraneo che,
in certi momenti, viene incontro a noi nello specchio, il fratello
familiare e pur tuttavia inquietante che noi ritroviamo nelle
nostre stesse fotografie, è ancora l’assurdo.
A. Camus
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Oskár Zwintscher-1901 |
Lo
specchio, ci passi
davanti ed è forte la tentazione di dare una sbirciata, come
se non sapessi già chi
ci sta dall’altra parte, ma
la vanità e la curiosità sono animali difficilmente governabili.
Allora ti
fermi
un attimo ad osservare
superficialmente,
come sempre, a
indovinare possibili cambiamenti epidermici,
o altri segni che
possano far sospettare ciò che in realtà si sa benissimo, e cioè
l’età che avanza; qualche
smorfia per gioco o
come reazione a qualche
pensiero immaginario. E
la mente inizia a
vagare oltre quella
superficie in cui la mattina si riflettono grandi
quanto fragili sogni
destinati, poi, a
svanire
mestamente la sera.
Meglio
aggirare i facili cliché che costringono a rigide metafore usurate,
del tipo “si sa che lo specchio ingrassa” di chi non accetta di
aver bisogno di un po’ di dieta. O “Si usa uno specchio di vetro
per guardare il viso e si usano le opere d’arte per guardare la
propria anima” (anche se è una pur sempre rispettabile citazione
di G. B. Shaw). O l’antico e suggestivo “se guardi troppo lo
specchio ti ruba l’anima”, versione simil-popolare del celebre e
un po’ abusato “abisso” di Nietzsche. E così via.
Piacersi,
allo specchio, è uno sforzo non comune per chiunque. E passi per chi
non è stato baciato dalla fortuna, ma a recriminare più di tutti,
spesso sono quelli con i quali la natura è stata anche generosa, ma,
a quanto pare, mai abbastanza. Una miglioria è sempre possibile.
Qualche ritocchino qua e là non starebbe male, l’immagine è tutto
nella società dell’apparire (lo so, anche questo è un luogo
comune trito e ritrito ma è vero…).
Anche
se non piace ammetterlo, farsi accettare dagli altri passa anche
dall’immagine che si dà di sé, che a sua volta dipende
dall’immagine che si ha di sé, e che poi, malauguratamente, spesso
neanche corrisponde a quella che si vede al di là dello specchio! Un
rompicapo. Certo, deve avere ben altri problemi chi, poi, decide di
deturpare il proprio volto con interventi inspiegabilmente invasivi.
Ma questo è un altro discorso.
Tutti
abbiamo visto una volta almeno il volto di una persona riflesso sulla
superficie di una specchio, notando una strana, leggera deformazione
dei lineamenti che, aggiunta alla specularità, rendono quel volto
uguale e diverso al tempo stesso, una sorta di “doppio”.
Affascinante. Posso solo immaginare lo stesso effetto su di me,
condannato a non poter mai vedere direttamente le differenze con
l’originale, stranezze della sorte. Ma in questo modo lo specchio
sta lì a ricordarmi, metaforicamente e non, che sicuramente io ho
un’immagine distorta di me. Sicuramente è vero ma chi non ha
un’idea di sé adattata alle proprie convinzioni o desideri, a
seconda della propria autostima? Chiunque, con grande generosità, si
attribuisce una quantità di pregi (beh, qualcuno lo avrà pure) e,
con altrettanto grande indulgenza, ammette solo qualche difetto,
magari edulcorato, spesso un pregio camuffato o derubricato a
“particolare tipico del carattere”, espressione di sicura
personalità.
A.
Dürer aveva un’alta considerazione di sé e professionalmente ne
aveva qualche motivo, essendo uno dei più grandi artisti
rinascimentali. E la consapevolezza del suo valore traspare dai suoi
autoritratti in cui si presenta come, diremmo oggi, orgoglioso,
affermato intellettuale del suo tempo, innovatore della pittura
tedesca.
Ma
quello è sempre lì che ti fissa, ti scruta quanto più tu lo fissi.
Quello sguardo che a volte, benevolo, ti compiace, altre volte
ammicca complice, altre ancora ti ammonisce silenziosamente,
inascoltato, purtroppo...(terribile scontro linguistico ma rende bene
l’idea!). Intanto i pensieri via via si accavallano, si divaga, si
affaccia qualche domanda, qualcuna frivola, altre più serie, magari
relegate finora in un angolo perché non si ha tempo o ci si rifugia
in risposte furbescamente interessate. O perché scomode e attendono
risposte sempre rimandate, troppo impegnative. Si rinuncia a pensare.
Potrebbe essere l’occasione per introdurre una riflessione, per
analizzare qualche questione, poi, con più calma. Osservare gli
autoritratti di G. De Chirico, inizialmente enigmatici e pensosi,
com’era doveroso in clima metafisico, magari a volte un po’
artificiosi ma poi, in qualche occasione il nostro sa mostrarsi anche
umile e sincero (ma solo nei dipinti!…). Finché, in età avanzata,
con atteggiamento giocoso e istrionico si esibisce, divertito, in
stravaganti, variegati costumi d’epoca.
A
volere ben guardare, c’è un ricco microcosmo che si agita al di là
dello specchio. Il tuo, quello che pensi di conoscere e che chiede
attenzione, e infatti quello sta ancora lì a fissare, sembra una
sfida ad entrare, attraversare quella soglia virtuale ma non troppo,
magari esplorare, in cerca del reale o dell’immaginario,
dell’ignoto, chissà, di qualche pagina di vita passata
inosservata, finora, nascosta tra le rughe dell’età. E scoprire
quanto poco e male si sapeva, magari frenati dal proprio ego che, nel
frattempo, si è costruito una facciata da spendere in pubblico e,
alla lunga, ha finito per convincere anche noi stessi. Lasciamo il
resto agli studiosi.
Osservare
un volto è sempre una scoperta, se poi è il proprio, le sorprese
possono aumentare, dipende dall’onestà con la quale lo si osserva.
Lo specchio, un selfie in movimento, un autoritratto involontario, a
guardare bene non molto fedele o forse anche troppo, ti attrae e ti
respinge al tempo stesso. Non ti fidi del tuo doppio. Forse si può
esorcizzarlo bloccandolo in un autoritratto vero. Ma qui Dorian non è
eterno e sempre giovane, un autoritratto non è un patto satanico
malefico. Il dipinto non assume su di sé tutti i tuoi difetti, i
vizi e le perversioni. È solo un fermo immagine di un film di cui
cerchi di intuire la trama sconosciuta, che si dipana giorno per
giorno. E se Picasso si chiedeva chi vedesse più correttamente la
figura umana, se il pittore, lo specchio o il fotografo, si potrebbe
rispondere che l’ipotetica correttezza nell’arte non può
esistere, sarebbe di una noia insopportabile. Vedere l’interminabile
processione di autoritratti di Rembrandt in abiti di tutte le fogge,
al limite del narcisismo. Ambizioso, sempre impegnato a proporsi al
meglio per avere successo e guadagnare denaro e qualche gradino della
scala sociale. Prima baldanzoso, sicuro di sé, orgoglioso dei suoi
successi, poi via via sempre più disincantato, sotto i colpi delle
sconfitte e delle avversità della vita familiare, fino alla
disillusione totale ma sempre indomito, indagatore instancabile
dell’umano sentire, attraverso il suo volto, sempre quello ma con
negli occhi una luce sempre diversa e viva.
![]() |
Rembrandt van Rijn, Autoritratto come Zeusi, 1663 |
Ma
quello dall’altra parte continua guardare, sornione ma implacabile,
insinua quella mezza idea che già sta facendosi strada, ancora
indefinita, incerta ma allettante. La tentazione, galeotta, spinge
per cimentarti ancora una volta in una nuova avventura, perché
questo è un autoritratto, un nuovo tentativo.
Chissà
cosa spinge un artista ad eseguire un autoritratto. Facile rispondere
con un nobile “la ricerca di se stesso”, ma l’arte non è
l’analisi, o peggio, un saggio di filosofia. Forse è probabile e
più realistico un “a che punto siamo” inteso come percorso
estetico e umano. Per qualcuno è un bisogno o un divertimento. Per
altri il desiderio di sondare e superare i propri limiti. Per altri
ancora un modo per sperimentare nuove soluzioni. Tutti gli artisti si
sono cimentati almeno una volta nella vita con l’autoritratto,
qualcuno ne ha fatto perfino il filo conduttore del proprio percorso
artistico, eseguendone parecchi. Oltre quelli del sopra citato
Rembrandt, ci sono quelli di V. van Gogh, vere e proprie confessioni
d’arte sincere, a tratti anche commoventi, a se stesso prima ancora
che agli altri.
O
quelli di E. Schiele, dalle immagini aspre e spigolose in cui si
legge facilmente l’angoscia del mal di vivere, le frustrazioni, i
fantasmi della sua mente, le manie, le lacerazioni, sorta di
decomposizioni interiori, sue e di quella società che volgeva al
tramonto. Finché un’epidemia risolse pietosamente tutto in un
colpo solo, un giorno di ottobre del 1918, privandoci troppo presto
di chissà quali futuri sviluppi umani e artistici di questo talento.
Tanti
altri esempi si potrebbero fare ma si cadrebbe sempre in quello
spazio immaginario del “tra sé e sé” che ogni pittore riempie
come crede per formare quella immagine che per secoli è stata sempre
la testimone del proprio tempo, vissuto e tramandato. Immagine che,
poi, complice la tecnologia, abbiamo banalizzata (massificata, si
sarebbe detto una volta), manipolata, stravolta ed estremizzata, al
punto che anche lo specchio ormai fatica a riconoscerci, a volte...
Ridotta a puro e vuoto esibizionismo esteriore magari da dare in
pasto a quel famelico mondo dei social media. E proprio in
quest’epoca in cui l’eccesso, l’iperbole dominano, la
normalità, qualsiasi cosa essa voglia dire, diventa complicata.
Forse, servirebbe qualche selfie in meno e qualche “autoritratto”
in più.