mercoledì 10 settembre 2025

 
   

Davanti allo specchio

 

 
 
 
Questo malessere di fronte all’inumanità dell’uomo stesso,
questa incalcolabile degradazione dell'immagine di ciò che siamo,
questa “nausea”, come la chiama un autore contemporaneo,
sono pure l’assurdo. Parimenti, l’estraneo che,
in certi momenti, viene incontro a noi nello specchio, il fratello
familiare e pur tuttavia inquietante che noi ritroviamo nelle
nostre stesse fotografie, è ancora l’assurdo.
A. Camus

 

 

 
Oskár Zwintscher-1901

 
  
   Lo specchio, ci passi davanti ed è forte la tentazione di dare una sbirciata, come se non sapessi già chi ci sta dall’altra parte, ma la vanità e la curiosità sono animali difficilmente governabili. Allora ti fermi un attimo ad osservare superficialmente, come sempre, a indovinare possibili cambiamenti epidermici, o altri segni che possano far sospettare ciò che in realtà si sa benissimo, e cioè l’età che avanza; qualche smorfia per gioco o come reazione a qualche pensiero immaginario. E la mente inizia a vagare oltre quella superficie in cui la mattina si riflettono grandi quanto fragili sogni destinati, poi, a svanire mestamente la sera.
   Meglio aggirare i facili cliché che costringono a rigide metafore usurate, del tipo “si sa che lo specchio ingrassa” di chi non accetta di aver bisogno di un po’ di dieta. O “Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima” (anche se è una pur sempre rispettabile citazione di G. B. Shaw). O l’antico e suggestivo “se guardi troppo lo specchio ti ruba l’anima”, versione simil-popolare del celebre e un po’ abusato “abisso” di Nietzsche. E così via.
   Piacersi, allo specchio, è uno sforzo non comune per chiunque. E passi per chi non è stato baciato dalla fortuna, ma a recriminare più di tutti, spesso sono quelli con i quali la natura è stata anche generosa, ma, a quanto pare, mai abbastanza. Una miglioria è sempre possibile. Qualche ritocchino qua e là non starebbe male, l’immagine è tutto nella società dell’apparire (lo so, anche questo è un luogo comune trito e ritrito ma è vero…).
   Anche se non piace ammetterlo, farsi accettare dagli altri passa anche dall’immagine che si dà di sé, che a sua volta dipende dall’immagine che si ha di sé, e che poi, malauguratamente, spesso neanche corrisponde a quella che si vede al di là dello specchio! Un rompicapo. Certo, deve avere ben altri problemi chi, poi, decide di deturpare il proprio volto con interventi inspiegabilmente invasivi. Ma questo è un altro discorso.
   Tutti abbiamo visto una volta almeno il volto di una persona riflesso sulla superficie di una specchio, notando una strana, leggera deformazione dei lineamenti che, aggiunta alla specularità, rendono quel volto uguale e diverso al tempo stesso, una sorta di “doppio”. Affascinante. Posso solo immaginare lo stesso effetto su di me, condannato a non poter mai vedere direttamente le differenze con l’originale, stranezze della sorte. Ma in questo modo lo specchio sta lì a ricordarmi, metaforicamente e non, che sicuramente io ho un’immagine distorta di me. Sicuramente è vero ma chi non ha un’idea di sé adattata alle proprie convinzioni o desideri, a seconda della propria autostima? Chiunque, con grande generosità, si attribuisce una quantità di pregi (beh, qualcuno lo avrà pure) e, con altrettanto grande indulgenza, ammette solo qualche difetto, magari edulcorato, spesso un pregio camuffato o derubricato a “particolare tipico del carattere”, espressione di sicura personalità.
   A. Dürer aveva un’alta considerazione di sé e professionalmente ne aveva qualche motivo, essendo uno dei più grandi artisti rinascimentali. E la consapevolezza del suo valore traspare dai suoi autoritratti in cui si presenta come, diremmo oggi, orgoglioso, affermato intellettuale del suo tempo, innovatore della pittura tedesca.
 
 
Albrecht Dürer, Autoritratto con guanti, 1498

 
Albrecht Dürer, Autoritratto 1500

   
 
   Ma quello è sempre lì che ti fissa, ti scruta quanto più tu lo fissi. Quello sguardo che a volte, benevolo, ti compiace, altre volte ammicca complice, altre ancora ti ammonisce silenziosamente, inascoltato, purtroppo...(terribile scontro linguistico ma rende bene l’idea!). Intanto i pensieri via via si accavallano, si divaga, si affaccia qualche domanda, qualcuna frivola, altre più serie, magari relegate finora in un angolo perché non si ha tempo o ci si rifugia in risposte furbescamente interessate. O perché scomode e attendono risposte sempre rimandate, troppo impegnative. Si rinuncia a pensare. Potrebbe essere l’occasione per introdurre una riflessione, per analizzare qualche questione, poi, con più calma. Osservare gli autoritratti di G. De Chirico, inizialmente enigmatici e pensosi, com’era doveroso in clima metafisico, magari a volte un po’ artificiosi ma poi, in qualche occasione il nostro sa mostrarsi anche umile e sincero (ma solo nei dipinti!…). Finché, in età avanzata, con atteggiamento giocoso e istrionico si esibisce, divertito, in stravaganti, variegati costumi d’epoca.
   
 
G. De Chirico, Autoritratto, 1911

 
 
G. De Chirico, Autoritratto, 1959

 
   A volere ben guardare, c’è un ricco microcosmo che si agita al di là dello specchio. Il tuo, quello che pensi di conoscere e che chiede attenzione, e infatti quello sta ancora lì a fissare, sembra una sfida ad entrare, attraversare quella soglia virtuale ma non troppo, magari esplorare, in cerca del reale o dell’immaginario, dell’ignoto, chissà, di qualche pagina di vita passata inosservata, finora, nascosta tra le rughe dell’età. E scoprire quanto poco e male si sapeva, magari frenati dal proprio ego che, nel frattempo, si è costruito una facciata da spendere in pubblico e, alla lunga, ha finito per convincere anche noi stessi. Lasciamo il resto agli studiosi.
   Osservare un volto è sempre una scoperta, se poi è il proprio, le sorprese possono aumentare, dipende dall’onestà con la quale lo si osserva. Lo specchio, un selfie in movimento, un autoritratto involontario, a guardare bene non molto fedele o forse anche troppo, ti attrae e ti respinge al tempo stesso. Non ti fidi del tuo doppio. Forse si può esorcizzarlo bloccandolo in un autoritratto vero. Ma qui Dorian non è eterno e sempre giovane, un autoritratto non è un patto satanico malefico. Il dipinto non assume su di sé tutti i tuoi difetti, i vizi e le perversioni. È solo un fermo immagine di un film di cui cerchi di intuire la trama sconosciuta, che si dipana giorno per giorno. E se Picasso si chiedeva chi vedesse più correttamente la figura umana, se il pittore, lo specchio o il fotografo, si potrebbe rispondere che l’ipotetica correttezza nell’arte non può esistere, sarebbe di una noia insopportabile. Vedere l’interminabile processione di autoritratti di Rembrandt in abiti di tutte le fogge, al limite del narcisismo. Ambizioso, sempre impegnato a proporsi al meglio per avere successo e guadagnare denaro e qualche gradino della scala sociale. Prima baldanzoso, sicuro di sé, orgoglioso dei suoi successi, poi via via sempre più disincantato, sotto i colpi delle sconfitte e delle avversità della vita familiare, fino alla disillusione totale ma sempre indomito, indagatore instancabile dell’umano sentire, attraverso il suo volto, sempre quello ma con negli occhi una luce sempre diversa e viva.
    
 
 
Rembrandt van Rijn, Autoritratto, 1629



Rembrandt van Rijn, Aautoritratto 1640


 
Rembrandt van Rijn, Autoritratto come Zeusi, 1663


    Ma quello dall’altra parte continua guardare, sornione ma implacabile, insinua quella mezza idea che già sta facendosi strada, ancora indefinita, incerta ma allettante. La tentazione, galeotta, spinge per cimentarti ancora una volta in una nuova avventura, perché questo è un autoritratto, un nuovo tentativo.
   Chissà cosa spinge un artista ad eseguire un autoritratto. Facile rispondere con un nobile “la ricerca di se stesso”, ma l’arte non è l’analisi, o peggio, un saggio di filosofia. Forse è probabile e più realistico un “a che punto siamo” inteso come percorso estetico e umano. Per qualcuno è un bisogno o un divertimento. Per altri il desiderio di sondare e superare i propri limiti. Per altri ancora un modo per sperimentare nuove soluzioni. Tutti gli artisti si sono cimentati almeno una volta nella vita con l’autoritratto, qualcuno ne ha fatto perfino il filo conduttore del proprio percorso artistico, eseguendone parecchi. Oltre quelli del sopra citato Rembrandt, ci sono quelli di V. van Gogh, vere e proprie confessioni d’arte sincere, a tratti anche commoventi, a se stesso prima ancora che agli altri. 
 
 
 
V. van Gogh, Autoritratto, 1887


V. van Gogh, Auoritratto con l'orecchio bendato, 1889

 
   O quelli di E. Schiele, dalle immagini aspre e spigolose in cui si legge facilmente l’angoscia del mal di vivere, le frustrazioni, i fantasmi della sua mente, le manie, le lacerazioni, sorta di decomposizioni interiori, sue e di quella società che volgeva al tramonto. Finché un’epidemia risolse pietosamente tutto in un colpo solo, un giorno di ottobre del 1918, privandoci troppo presto di chissà quali futuri sviluppi umani e artistici di questo talento.
 
 
E. Schiele, Autoritratto, 1911




 
 
E. Schiele, Autoritratto, 1912

 
   Tanti altri esempi si potrebbero fare ma si cadrebbe sempre in quello spazio immaginario del “tra sé e sé” che ogni pittore riempie come crede per formare quella immagine che per secoli è stata sempre la testimone del proprio tempo, vissuto e tramandato. Immagine che, poi, complice la tecnologia, abbiamo banalizzata (massificata, si sarebbe detto una volta), manipolata, stravolta ed estremizzata, al punto che anche lo specchio ormai fatica a riconoscerci, a volte... Ridotta a puro e vuoto esibizionismo esteriore magari da dare in pasto a quel famelico mondo dei social media. E proprio in quest’epoca in cui l’eccesso, l’iperbole dominano, la normalità, qualsiasi cosa essa voglia dire, diventa complicata. Forse, servirebbe qualche selfie in meno e qualche “autoritratto” in più.